La Mesopotamia in mostra: un viaggio virtuale tra le collezioni di Torino e Firenze

Collezione Torino

Dai monti al deserto e ritorno: il legame storico tra Torino e l’Oriente

Terre lontane, affascinanti, ricche di misteri e antiche civiltà: così appariva l’Oriente agli occhi degli europei. Fin dal XII secolo, viaggiatori e mercanti iniziarono ad attraversare queste terre, spinti dalla curiosità e dal desiderio di scoperta. Tornavano in patria con meraviglie da raccontare e una consapevolezza nuova: quei luoghi non erano solo esotici, ma profondamente colti e raffinati.

Quel primo contatto, fatto di stupore e scambi, fu il seme da cui, secoli dopo, sarebbero germogliate le grandi politiche imperiali di Francia e Inghilterra. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, l’attrazione per l’Oriente si trasformò in un preciso disegno di controllo: nacquero così i grandi imperi coloniali moderni, le cui conseguenze si riflettono ancora oggi sulla scena politica e culturale globale. In questo scenario, l’Impero Ottomano divenne il fulcro delle ambizioni europee, considerato un territorio chiave per il controllo di rotte commerciali e risorse strategiche tra Asia e Europa. Fu l’inizio di una lunga stagione diplomatica: consoli, esploratori e studiosi iniziarono ad affollare le città ottomane, stringendo accordi e scavando nel passato glorioso di quelle terre. Accanto alle trattative diplomatiche, prendeva forma un nuovo fervore: l’archeologia. Mentre le idee illuministiche e rivoluzionarie circolavano tra le élite europee, l’Encylopédie (Bergamini 2011, 119) forniva un modello di conoscenza universale, e le antichità dell’Oriente diventavano trofei culturali, simboli di superiorità e modernità in seno ad una visione universalistica.

È in questo contesto che si inseriscono le storie affascinanti di alcuni piemontesi, protagonisti di avventure straordinarie in Egitto e Mesopotamia. Il primo fu Bernardino Drovetti. Nel 1811, ottenne la carica di console francese ad Alessandria d’Egitto. Ma non si limita ai compiti diplomatici: inizia un’appassionata attività di raccolta di antichità egizie. La sua collezione, venduta a Carlo Felice di Savoia, diventerà il nucleo del Regio Museo delle Antichità, fondato nel 1824, oggi il Museo Egizio di Torino.

Pochi anni dopo, un altro piemontese raccolse il testimone: Paolo Emilio Botta. Dopo aver ricoperto la stessa carica di console ad Alessandria, nel 1842 viene inviato a Mosul, sulle rive del Tigri. Ma i suoi occhi non si fermano alla città: guardò un po’ più a nord, dove la polvere nascondeva le rovine di una città dimenticata. È lì che riportò alla luce Dur-Sharrukin, oggi Khorsabad, una delle antiche capitali assire. Gran parte dei reperti venne inviata a Parigi, dove formò il primo nucleo della collezione assira del Museo del Louvre, ma due pezzi giunsero anche a Torino, arricchendo il patrimonio del Museo e dando vita a quella che sarà la più importante collezione mesopotamica d’Italia.

La nascita della collezione mesopotamica di Torino nel 1847: la donazione Botta

Nel febbraio del 1847 nacque la collezione mesopotamica del Regio Museo di Antichità di Torino. A darle vita furono due reperti provenienti da Khorsabad che Paolo Emilio Botta donò alla città: la testa del sovrano assiro Sargon II e una testa di dignitario. Questi erano parte di una collezione più ampia che, invece, confluì al Louvre, legando inestricabilmente la collezione torinese a quella francese.

L’operato di Botta a Khorsabad non si limitò alla semplice raccolta di reperti, ma si concretizzò in un’acquisizione dei dati di scavo in modo dettagliato, attento e meticoloso, esposti in modo chiaro e preciso con veri e propri rapporti finali (Le Monument de Ninive). Per questo motivo, la collezione di Botta è testimone di una visione pionieristica dell’attività archeologica, superando quella di Drovetti, che, pur essendo aggiornata e illuminata, rimase puramente collezionistica. 

La scoperta della capitale assira fu sensazionale, in quanto disvelò “un nuovo mondo di antichità” (Botta 1848, 5), continuando ad avere un’eco ancora oggi e arricchendo la nostra conoscenza del mondo mesopotamico.

La crescita della collezione tra il 1856 e il 1867

Il periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento vide un intensificarsi della presenza di piemontesi nei territori dell’Impero Ottomano, che contribuirono ad ampliare ulteriormente la collezione orientale di Torino. Due donazioni da parte di privati testimoniano la temperie del momento. Una è quella dell’avvocato Guadagnini, che nel 1856 donò al Regio Museo di Antichità due frammenti di bassorilievi provenienti da Ninive e un frammento di iscrizione cuneiforme proveniente da un lamassu di Khorsabad (Devecchi 2024, 139). La seconda era appartenuta al barone Romualdo Tecco. Egli era stato in servizio come ambasciatore a Costantinopoli fino al 1855, all’epoca in cui vengono scoperte e scavate le grandi capitali assire, ed è probabilmente in quegli anni che arrivò a possedere due frammenti di rilievi e un frammento di iscrizione da Khorsabad. La donazione avvenne però tra il 1861 e il 1867, al termine del suo servizio come ministro della neonato Regno d'Italia e la sua morte (Devecchi 2024, 138).

Proprio in quegli anni l’Europa orientale vide il consumarsi di grandi scontri. La Guerra di Crimea (1853-1856) permise al piccolo Regno di Sardegna di guadagnarsi un posto nello scacchiere politico internazionale, perorando la causa italiana. Intervenne nel 1855 al fianco dell’alleanza ottomana, francese e inglese contro la Russia zarista. La vittoria dell’alleanza anti-russa avvicinò i piemontesi e l’Impero Ottomano, rafforzando le politiche commerciali e diplomatiche tra i due regni (Quazza 1961), di conseguenza incrementando la presenza e l’attività dei piemontesi nei territori dell’Impero.

Le esperienze di Drovetti e Botta prima e le donazioni di Guadagnini e Tecco poi, mostrano come la storia della collezione orientale di Torino sia profondamente legata agli avvenimenti politici del periodo.

 

L'unità d’Italia e le prime attività di Schiaparelli a Torino: dal 1861 al 1896

Quando, il 17 marzo 1861, venne ufficialmente proclamato il Regno d’Italia con Torino prima capitale, anche le istituzioni culturali dovettero adattarsi al nuovo assetto nazionale. In questo contesto, il Regio Museo di Antichità assunse un ruolo chiave: diventare il punto di riferimento museale della giovane nazione. Per essere all’altezza di questo compito, fu necessario arricchirne le collezioni. Già nei primi anni successivi all’unità, il museo iniziò ad ampliarsi. Oltre alla donazione Tecco, nel 1863 entrarono a far parte del patrimonio museale sei cilindri assiri (Bergamini 1995, 317) e, probabilmente, altri due manufatti in pietra di origine assira, come suggerisce l’inventario redatto nel 1868 dall’allora direttore Camillo Orcurti (Devecchi 2024, 140).

Un capitolo fondamentale di questa crescita si apre nel 1894, quando Ernesto Schiaparelli, figura di spicco nel panorama archeologico italiano, assunse la direzione del museo. Grazie alla collaborazione con Luigi Pigorini, direttore dei Musei Preistorico-Etnografico e Kircheriano di Roma, nel 1896, due anni dopo il suo arrivo a Torino, Schiaparelli realizzò un importante scambio di reperti: al museo torinese giunsero 186 antichità egizie e 7 mesopotamiche, tra cui alcuni mattoni iscritti con i nomi di sovrani celebri come Ur-Namma, Sennacherib e Nabucodonosor II, che erano appartenuti al Museo Kircheriano. In cambio, vennero ceduti 26 manufatti mesoamericani (Mineo 2013, 112). Il Museo Kircheriano, fondato nel XVII secolo a Roma dal gesuita Athanasius Kircher, custodiva pezzi mesopotamici di notevole interesse, alcuni dei quali erano stati recuperati da Pigorini nel corso della progressiva dismissione del medesimo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’iniziativa dello scambio partì direttamente da Schiaparelli, animato dall’obiettivo di ampliare la collezione mesopotamica torinese e, più in generale, di "riunire in un solo luogo i frammenti sparsi del medesimo materiale scientifico, se si vuole che studiosi possano averne qualche profitto" (Mineo 2013, 107; Devecchi 2024,140-141). Questo nuovo nucleo di reperti contribuì a rafforzare la posizione del museo torinese nel panorama culturale italiano, conferendogli un ruolo di primo piano anche a livello europeo. Non è escluso, tra l’altro, che alcuni dei mattoni iscritti giunti a Torino fossero stati portati in Italia già nel Seicento, in seguito ai viaggi in Mesopotamia del nobiluomo Pietro della Valle. Se così fosse, la collezione torinese potrebbe vantare i primi esemplari di documenti cuneiformi mai giunti in Europa, precedenti persino al celebre “Caillou Michaux”, arrivato in Francia solo nel 1786 (Devecchi 2022).

 

L'ultimo grande ampliamento: l'acquisto del 1921

L’occasione che portò a un notevole ampliamento della collezione torinese risale al febbraio del 1921, quando Ernesto Schiaparelli acquistò un lotto composto da circa 900 tavolette cuneiformi e 49 sigilli.
L’idea dell’acquisto fu suggerita dal canonico e assiriologo valdostano Giustino Boson, che, trovandosi a Parigi per motivi di studio, entrò in contatto con “un antiquario, un medico originario di Baghdad” che offriva la raccolta in vendita (Boson 1927, 272; Devecchi 2024, 141-144). Grazie a questa acquisizione, la collezione orientale del Museo di Torino si ampliò in modo significativo, assumendo la fisionomia che conserva ancora oggi e diventando la più cospicua del territorio nazionale.

In aggiunta alla variabilità cronologica e geografica coperta dalla collezione, in essa risiede anche un altro punto di forza. Alcuni reperti presentano tracce di rilavorazione di epoche successive ed è presente anche un sigillo di imitazione assira realizzato in tempi moderni. La presenza di un falso mostra come esistesse un vero e proprio mercato di antichità già a partire dalla fine dell’Ottocento, riflesso di quanto fosse forte e viva l’attenzione europea all'accaparramento di antichità vicino-orientali (Bergamini 1987, 17).

Infatti, l’attenzione accademica e museologica europea continuò a svilupparsi parallelamente alle ingerenze in Asia Occidentale e l’Italia non ne fu esclusa. Leggendo le lettere che Schiaparelli manda al Ministero dell’Istruzione, emerge chiaramente come egli pose un collegamento diretto tra l’acquisto del lotto di materiali parigini e la possibilità di condurre scavi archeologici nelle aree di influenza italiana in Turchia ottenute in seguito al Trattato di Sèvres dell’agosto 1920, per cui all’Italia venne riconosciuto il controllo della regione di Adalia.

Il fermento è ben comprensibile se si considera che, proprio negli anni successivi al primo conflitto mondiale, le attività di ricerca furono numerose e culminarono nella stagione di scavi di Sir Leonard Woolley, che tra il 1922 e il 1934 portò alla luce l'antica Ur.

Paolo Andreucci, Bianca Ciatti