La Mesopotamia in mostra: un viaggio virtuale tra le collezioni di Torino e Firenze

Paolo Emilio Botta

Pioniere dell’archeologia assira

Paolo Emilio Botta

Paolo Emilio Botta (Torino, 6 dicembre 1802 – Achères, 29 marzo 1870), figlio dello storico Carlo Botta e di Antonietta Viervil, fu un eminente archeologo e storico piemontese, successivamente naturalizzato francese. Conosciuto anche come Paul Émile Botta, studiò medicina in Francia, paese d’adozione della famiglia a seguito delle vicende politiche che, durante la dominazione napoleonica del Piemonte, coinvolsero il padre, di idee repubblicane, filofrancesi e apertamente ostile alla monarchia sabauda.

In questo ambiente intellettualmente vivace e politicamente impegnato, Botta sviluppò un forte interesse per le scienze geografiche, l’antropologia e gli studi naturalistici. Spinto dalla curiosità scientifica, intraprese un viaggio intorno al mondo tra il 1826 e il 1829, le cui osservazioni furono pubblicate nel 1841 nell’opera di Auguste Duhaut-Cilly Voyage autour du monde principalement à la Californie et aux îles Sandwich. Per questi contributi, nel gennaio 1830 fu nominato socio corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino con il titolo di “viaggiatore”.

Al rientro, Botta si trasferì in Egitto, dove divenne medico personale alla corte del Khedivè Mohammed Ali. Nel 1833 fu nominato console di Francia ad Alessandria d’Egitto, succedendo a Bernardino Drovetti, celebre raccoglitore di antichità egizie. Partecipò poi a una spedizione zoologica nel Sennar, lungo il Nilo Azzurro, e successivamente, nel 1837, viaggiò nello Yemen.

Il momento più significativo della sua carriera giunse nel 1842, con la nomina a console di Francia a Mosul, nei pressi delle leggendarie rovine di Ninive, antica capitale dell’impero assiro, citata più volte nei testi biblici. L’interesse per l’area era triplice: confermare storicamente i racconti biblici, alimentare la crescente curiosità europea verso le civiltà mesopotamiche e riaffermare il prestigio scientifico francese dopo la caduta di Napoleone. Arrivato a Mosul, Botta iniziò a esaminare i siti archeologici circostanti. Scartò Tell Nebi Yunus, occupato da una moschea ritenuta custodire la tomba del profeta Giona, e scelse invece la collinetta di Kuyunjik. Qui iniziò gli scavi nel dicembre 1842, ma i risultati furono deludenti: i palazzi assiri giacevano ancora troppo in profondità, e le attività agricole successive ne avevano compromesso i livelli superiori. Dopo tre mesi di scavi infruttuosi e con i fondi personali in esaurimento, Botta era sul punto di abbandonare l’impresa. Fu allora che ricordò due mattoni iscritti provenienti dal vicino villaggio di Khorsabad. Il 20 marzo 1843 incaricò l’operaio Naaman Ibn Naush di effettuare un saggio: tre giorni dopo questi tornò con la notizia del ritrovamento di rilievi e iscrizioni. Fu il primo palazzo assiro mai portato alla luce: Botta aveva riscoperto Dūr-Šarrukin, la capitale fondata dal re Sargon II alla fine dell’VIII secolo a.C. Botta proseguì gli scavi senza sosta fino all’ottobre 1844, quando la presenza di ambienti privi di rilievi lo indusse a sospendere le ricerche. I reperti furono trasportati a Mosul, imbarcati a Bassora e spediti fino a Le Havre, giungendo a Parigi nel febbraio 1847, dove, il primo maggio, venne inaugurata la collezione orientale del Louvre. In segno di riconoscenza verso la Reale Accademia delle Scienze di Torino, che nel 1830 lo aveva nominato socio corrispondente, nel febbraio 1847 Botta donò due rilievi di Khorsabad anche a Torino.

Botta si distinse per l’approccio innovativo e metodico: non si limitò a raccogliere oggetti, ma documentò i ritrovamenti con grande rigore, pubblicandoli nell’opera Monument de Ninive del 1849. Questo lavoro rappresenta uno dei primi esempi di documentazione archeologica moderna, caratterizzata da un’organizzazione chiara, precisa e sistematica dei dati.

Le scoperte e l’opera di Paolo Emilio Botta hanno posto le basi dell’archeologia dell’Asia occidentale e il suo contributo continua a vivere nelle collezioni oggi custodite anche a Torino.

Paolo Andreucci, Elena Devecchi